BALANCE

Italia, giugno 2018

Che giorno è oggi?

Ormai ho una percezione temporale tutta mia, misuro il tempo in posti. Gli ultimi sette mesi sono stati Giordania, Marocco, Tanzania, Giappone, Taiwan, Vietnam, Myanmar, con qualche stop in Italia nel mezzo. Tra un posto e l’altro ho anche compiuto trent’anni —ero in Tanzania quel giorno, mi ricordo che ho parlato con una ragazza che il giorno dopo partiva per scalare il Kilimangiaro e ho pensato “Un giorno lo farò anch’io, per una grande occasione”—, sinceramente pensavo che i trenta non sarebbero mai arrivati e invece ce li ho addosso adesso, e con loro è arrivata anche la consapevolezza che sto invecchiando, idea che prima non mi aveva mai sfiorata. Il tempo e le sue distanze. Controllo la data sul telefono mentre mi lavo i denti: venerdì 8 Giugno. Mi cade l’occhio sull’ora.

Merda, è tardissimo!

Mi preparo in dieci minuti e volo fuori dalla porta. Oggi è l’ultimo giorno di riprese. Sto partecipando a un documentario girato da Elena Rossini, una mia cara amica filmmaker per cui ho una stima immensa—Il suo ultimo documentario The Illusionists parla della globalizzazione della bellezza e quello che sta girando ora tratta di surveillance capitalism e del lato oscuro dei social—mentre cammino per Como a passo da New Yorker, tracanno un vasetto di yogurt. Arrivo sul lungolago con ben due minuti di anticipo, Elena non c’è ancora, mi guardo intorno, faccio una story; non ero mai stata a Como, è molto carina. Ultimamente sto tornando spesso in Italia – molti dei miei ultimi assingnments sono stati per ONG e agenzie italiane, l’Italia mi è comoda per fare la spola e riposare un po’ tra un incarico e l’altro; più spesso che no però mi sento una straniera nel mio paese, capita che anche la gente che incontro creda che io sia straniera, penso in inglese ormai, spesso le parole non mi vengono o mi si attorcigliano in bocca, e mi ritrovo a doverlo spiegare imbarazzata. È ironica la cosa. Bilinguismo a parte, alla fine mi sono persa quasi dieci anni d’Italia. Non mi sono tenuta molto aggiornata su quello che succedeva mentre ero via, e adesso mi trovo davanti un’Italia molto diversa da come l’avevo lasciata e faccio fatica a capirla: sempre più diffidente verso gli stranieri, la paura del diverso ancora ben radicata in molte persone. Mi piacerebbe prenderle per il collo e trascinarle in viaggio con me, la realtà ha un aspetto diverso vista di persona piuttosto che attraverso uno schermo, viaggiando si riscopre una grande ovvientà troppo spesso dimenticata: che alla fine siamo tutti semplicemente umani e che in fondo vogliamo tutti le stesse cose – sicurezza, libertà, amore – e che dovremmo celebrare le nostre differenze invece di averne paura. Le frontiere, i confini, i colori della pelle nella mia mente si sono annullati. Ho iniziato a viaggiare perché ero curiosa di scoprire culture e mondi diversi dal mio, adesso viaggio per spiegare i due mondi a loro stessi. Ma essendo costantemente catapultata da una realtà all’altra, sballata dai contrasti, non mi sembra mai di appartenere interamente a nessuna di esse.

Arriva Elena, anche lei è un’altra italiana-non-italiana-cittadina-del-mondo: se n’è andata quando aveva diciott’anni, si è laureata a Boston, ha vissuto a Londra e da anni vive a Parigi. Ci abbracciamo, e mentre raggiungiamo Brunate chiacchieriamo aggiornandoci sulle nostre vite e sui nostri ultimi viaggi; come sempre le parlo di Bourdain—sono abbastanza ossessiva, quando qualcuno o qualcosa mi ispira, ne parlo sempre, a tutti, eccessivamente e fastidiosamente—e le confesso che ho iniziato a fare qualche video dalla qualità imbarazzante. Amo la fotografia ma temo che non sia abbastanza per le storie che voglio raccontare, il video è molto più efficace come forma di storytelling, ma non ho le abilità tecniche che servono per fare un lavoro fatto bene e soprattutto non ho il tempo per imparare.

«Non si nasce professionisti, lo sai, ci vuole pazienza. Secondo me dovresti trovarti un videografo, o un team con cui lavorare»

«Ci ho pensato ma in questo momento manca la cosa fondamentale: il budget. Penso che se non mi fossi fatta tutte queste seghe mentali sull’etica a quest’ora sarei ricca e famosa…»

«Penso anch’io, ma meglio avere la coscienza a posto, no? Troverai il modo, vedrai, un giorno avrai uno show tutto tuo, ti ci vedo come una versione femminile alla Bourdain»

«Quello è il sogno dei sogni, ma di Bourdain ce n’è e ce ne sarà sempre uno solo»

Dopo un paio d’ore di riprese torniamo sul lungolago e ci fermiamo in un bar per un caffè. Mentre Elena controlla il girato io ne approfitto per rispondere a email e messaggi. Appena sblocco il telefono noto un numero allarmante di notifiche su tutte le apps. Apro Instagram e ci sono molti più messaggi del solito. Leggo il primo…di riflesso il mio cervello cancella subito quello che ha visto; passo al secondo messaggio, questo è da un’amica, dice solo: «Anthony» con un emoji col cuore spezzato. Ritorno al primo messaggio, lo rileggo: «Hai sentito? Anthony Bourdain è morto».

Non puo essere

«Cosa è successo?» mi chiede Elena vedendomi incupita. Non riesco nemmeno a dirlo. Le faccio vedere il messaggio, è scioccata tanto quanto me.

«Oddio, mi dispiace» Sa che sono una fan sfegatata. Controllo su Google: «Anthony Bourdain morto suicida».

Suicida???

Continuo a leggere l’articolo, mi gira la testa. Si è impiccato nella sua stanza d’hotel, usando la cintura dell’accappatoio. Mi sento sprofondare dentro un buco nero e fetido di depressione. Ho iniziato a viaggiare grazie a lui, il suo show ha cambiato il modo in cui vedevo il mondo, i suoi libri mi hanno fatto compagnia nelle notti più solitarie, le sue parole mi hanno fatto cambiare idea su tanti dei miei preconcetti; mi ha insegnato il potere dello storytelling, a viaggiare col cuore aperto, senza di lui non sarei mai diventata la persona che sono oggi e la vita sarebbe completamente diversa, magari sarei ancora sui set di NYC a fotografare modelle. Non lo conoscevo, eppure mi sembra mi sia morto un parente.

Passa un’ora e non ho la minima idea di cosa ci siamo dette, ho il cervello in tilt, mi sento uno zombie. Elena se ne va e io salto su un treno verso Brescia. Scendo a Milano Centrale per il cambio, vorrei essere completamente sola ma c’è gente ovunque, accalcata, agitata, spingono, urlano, e io vorrei solo silenzio. Salto sul regionale—che sembra un carro bestiame dalla calca—e penso a quanto sia assurdo che una persona che non ho nemmeno mai incontrato abbia influenzato così tanto la mia vita. C’è tanto di lui in me, mi riconoscevo in lui. Ultimamente non mi riconosco più in niente, la società mi sembra sempre più assurda, ho sempre meno in comune con gli altri, mi sento capita solo dalla musica, dalla poesia, dalle parole di scrittori perlopiù morti. Devo tanto all’arte e agli artisti—quegli alchimisti di realtà, traduttori di emozioni, descrittori di sentimenti—perché l’arte cattura l’essenza di come ci si sente a essere umani, e quando la vita fa male riesce a spiegarti il perché. Ti fa sentire che non sei sola, che qualcun altro ha sentito quello che tu non riesci a spiegarti. E mentre il treno sfreccia tra le campagne padane guardo fuori dal finestrino con sguardo assente e l’unica parola che mi ronza in testa è perché?

Da fuori sembrava che Bourdain avesse la vita dei sogni – la mia vita dei sogni perlomeno. «Ho il lavoro più bello del mondo» diceva sempre. Per anni ho voluto essere come lui, volevo essere lui.

Perché?

E mentre cerco di dare un senso all’assurdo mi viene un flash: vedo la me di cinque anni fa accasciata sul pavimento del bagno dell’appartamento di Las Vegas, con un flacone di pillole in mano. E mi ricordo che la linea tra il farlo e il non farlo può essere molto molto sottile, a volte la differenza è fatta da un pensiero, a volte da una telefonata, a volte dagli occhi impauriti di un bassotto-killer, e a volte la realtà è troppo reale per sopportarne il peso, e niente ti può fermare. Quello che vediamo da fuori non è mai quello che c’è dentro, non sapremo mai come ci si sente nella testa o nell’anima di un’altra persona, non sentiremo mai il suo dolore in maniera uguale, nessuno può capire davvero le battaglie che si svolgono dentro ogni singolo cuore umano. I nostri demoni hanno sembianze diverse e si manifestano in forme inaspettate, spesso ci sorprendono da dietro, non li vediamo arrivare e ci accorgiamo della loro presenza quando ci stanno già soffocando. Non saprò mai perchè Bourdain ha scelto di smettere di esistere ma so bene cosa vuol dire non voler più esistere. La vita è una cosa talmente fragile, la nostra mente è di cristallo.

Quando finalmente arrivo a casa di mio padre, mi chiudo in camera con Krafen, prendo in mano The Nasty Bits – uno dei suoi libri – e inizio a leggere. Alla seconda riga scoppio a piangere, era tanto che non piangevo. Piango perché Bourdain era uno dei buoni, aveva un rispetto profondo per la gente e per la propria cultura, un’intolleranza per le ingiustizie e la disuguaglianza, se ne sbatteva del politicamente corretto e non aveva paura di far vedere il mondo per quello che è, senza filtri, no bullshit. Piango perché era il mio mentore indiretto, il mio modello di vita, il mio eroe. Un eroe morto suicida. Continuiamo a raccontarci storie di eroi ed eroine solitari “che ce la fanno da soli”, ma la solitudine uccide a volte. E piangendo come una fontana per uno sconosciuto in cui mi riconoscevo, mi rendo conto perché piango: piango perché mi sento l’ultima della mia specie rimasta. Perché ho passato i miei trent’anni a costruirmi, muovendomi da un posto all’altro, da un lavoro a un altro, dimenticando di costruirmici una vita intorno.

Farò anch’io la sua fine?

Mi alzo, vado di sotto, mi verso un bicchiere di whiskey, accendo una sigaretta in suo onore e mi perdo nelle note di Einaudi.

Enjoy the ride, Tony

Butto giù tutto il whiskey in un colpo.

Vietnam, settembre 2018

È la mia ultima sera qui. È tardi. Le strade di Hoan Kiem sono vuote, i negozi chiusi, le luci spettrali, le mie gambe pesanti. Ho la testa tra le nuvole e il cuore straripante degli ultimi mesi. Ladakh, Malesia, Thailandia, Nepal, di nuovo Vietnam. Appoggio la mia testa sul suo braccio avvolto intorno alle mie spalle, chiudo gli occhi mentre continuiamo a camminare e arrivano nuovi pensieri, pensieri mai pensati prima.

Viaggio per imparare la vita o per scappare da un qualcosa che non c’è?

Sono per strada da un po’ ormai. Ho preso troppi aerei per tenerne conto, e quanti taxi, treni, moto, barche; quanti volti ho visto, quanti addii ho detto, quante camere d’hotel ho cambiato; divani, tende, pavimenti di capanne nel mezzo del nulla, e quanti letti. Non dormo nello stesso letto per più di una settimana di fila da anni, un letto mio nemmeno ce l’ho, e questa cosa inizia un po’ a pesarmi, il mio fisico ne sta risentendo.

Trascino il mio corpo in hotel, pesante e vuoto allo stesso tempo. Arrivo in camera e mi butto sul letto. Sono stanca, così stanca che voglio piangere. Chiudo gli occhi, troppo esausta per addormentarmi, troppo vuota per rispondere ai messaggi e alle email che aspettano da giorni nella mia inbox, troppo piena per capire i milioni di pensieri che mi stanno facendo a pezzi questa settimana. Silenzioso e assordante arriva il solito…Che cazzo ci faccio qui? È stata una domanda ricorrente finora, ma non mi sono mai preoccupata di rispondere davvero. Poi arriva un punto nella vita dove è la vita stessa che ti obbliga a fare il punto. Con gli occhi chiusi riguardo gli ultimi anni in movimento: ho vissuto a Los Angeles, Las Vegas, Londra e New York; ho cambiato carriera tre volte, ho avuto tredici appartamenti, trentotto coinquilini, un marito. Ho viaggiato in oltre quaranta paesi e quattro continenti, collezionando scatti, emozioni, momenti, paesaggi, lezioni di vita, segni indelebili sul cuore e sulla coscienza, amici sparsi per il globo, amanti, troppi amanti: notti di fuoco senza seguito, un francese ad Hanoi, un brasiliano a Dublino, un italiano incontrato in India, un altro scappato in Australia, senza lasciare mai avvicinare nessuno oltre la notte, costruendomi muri e bolle intorno, andandomene senza mai guardare indietro, tanto sto sempre partendo. Qui oggi, via domani.

La mia macchina fotografica, il mio blog e i miei 40.000 followers sono i miei unici compagni costanti. Ho fatto della solitudine la mia migliore amica, è lei che mi ha regalato la forza, il coraggio, le risorse per fare tutto quello che ho fatto fino a ora, insieme siamo libere. Ma mentre vivo una vita di libertà e movimento, devota alla mia creatività, la vita degli altri va avanti e io mi perdo compleanni, matrimoni, funerali, nascite, lasciando una sedia vuota dall’altra parte del mondo. E adesso sono qui. Ho fatto tutto quello che volevo fare, inseguendo i sogni fino a dove andavano inseguiti, lasciandomi tutto alle spalle nel momento in cui una cosa non sembrava più giusta per me; senza paura di sfidare il mondo, la sorte, me stessa; senza paura di essere diversa; sradicandomi sempre di più dalla realtà che la maggior parte della gente che conosco condivide, correndo il più lontano possibile dalla morsa della società che a me sembra un carceriere di spiriti liberi e spesso un’assassina di sogni.

Mi ci sono messa da sola qui, volevo essere qui. Faccio un lavoro che amo e in cui finalmente mi riconosco, ho tante persone che apprezzano e supportano quello che creo e faccio, viaggio per il mondo. Se morissi domani me ne andrei senza rimpianti, eccetto quello di sapere che forse potevo amare un po’ di più e tenere i miei legami un po’ più stretti…

Eppure.

Eppure c’è qualcosa che non va.

Sono felice?

Non me l’ero mai chiesto davvero fino a oggi, ero troppo impegnata a correre, inseguendo un futuro che adesso è qui. Ma qui, ora, mi sembra un posto indefinito, pieno di nebbia, in una terra di nessuno.

Sono stanca

Con gli occhi ancora chiusi provo a immaginare la mia vita come un cerchio diviso in spicchi, ogni spicchio rappresenta un aspetto diverso: lavoro, amore, famiglia, divertimento, spiritualità, ecc. Mi ci vuole un secondo per capire che tanti spicchi sono completamente vuoti.

Frammenti.

La mia vita è diventata un puzzle fatto da pezzi mancanti. Sto diventando una fotografia sbiadita. Qui oggi, via domani.

Ho sbagliato tutto?

Sento l’acqua della doccia che si spegne e sento le lacrime che scendono; me le asciugo prima che apra la porta, non voglio che mi veda piangere. Domani salgo sull’ennesimo aereo e tutto questo resterà qui, in questa stanza, in questo momento che non si ripeterà mai più.

Nebbia.

Non so dove sto andando. Sono divisa dal bisogno di essere in costante movimento e dal desiderio segreto di avere di nuovo un posto da chiamare casa. Sospesa tra la necessità di essere libera e la voglia inconscia di condividere un pezzettino della mia vita con qualcuno. Sono quasi dieci anni che vivo volando – sempre più in alto, sempre più veloce – ma non ho mezza radice a terra. Sto diventando aria.

La stanchezza mi offusca i pensieri. Sono «stanca di tutto e stanca di niente», come diceva Fitzgerald, forse sono solo stanca di non avere nessun posto e nessuna persona da cui tornare. Forse devo imparare ad avere voglia di queste cose senza farmi prendere dal panico, pensando a quanto queste cose possano minare la mia libertà. Non ci vuole un genio per capirlo: manca equilibrio.

Equilibrio.

Tutti ne parlano, tutti lo cercano. È il sacro Graal dei nostri tempi. È una parola sulla bocca del mondo a cui ho pensato tanto, e mai alla leggera. Ci provo da una vita ma non so come o dove trovarlo questo dannato equilibrio, perché sono una di quelle persone che vedono quasi sempre o bianco o nero e faticano a soffermarsi su tutte le sfumature di grigio nel mezzo. Certe persone lo fanno sembrare così facile, ma io non gli credo. L’equilibrio non è facile per nessuno, ci vuole una vita a trovarlo, e non sono del tutto sicura che possa essere trovato; magari per un momento, magari sfiorato, ma quanto può durare davvero?

Equilibrio tra vita online e offline, superficialità e profondità, movimento e stabilità, solitudine e compagnia.

Equilibrio tra bene e male, buoni e cattivi, giusto e sbagliato, etico e immorale, tra l’amore per il mondo e i suoi orrori.

Equilibrio tra ego e anima.

Il tango di ogni vita.

Bisogna aspirarci all’equilibrio, certo, ma raggiungerlo? Mantenerlo? È un mito! Se c’è una cosa che ho capito in trent’anni di esistenza in questo strano-posto-chiamato-vita è che l’unica cosa che non cambia mai è il cambiamento: il cerchio della vita è un continuo riempirsi e svuotarsi di spicchi, e se si vuole vivere davvero, se si vuole provare qualcosa di vero, bisogna sbilanciarsi. Forse il vero equilibrio per me è capire che si possono avere entrambe, libertà e radici. Forse “equilibrio” è solo una parola che ha senso una volta che si impara a leggerla sottosopra…e ognuno la legge diversa.

Sento la maniglia girare. Guardo la porta e la vedo dentro di me, la porta che tengo chiusa da anni, impedendo a chiunque di entrare o anche solo di sbirciarci dietro. E mentre si apre lenta decido che stavolta vale la pena sbilanciarsi un po’, fermarsi un attimo, lasciare avvicinare qualcuno, avvicinarsi a qualcuno, smettere di scappare, mettere qualche radice. Ma sbilanciarsi è sempre un rischio, puoi cadere, puoi farti male, puoi perderti.

Il rischio è necessario se si vuole vivere davvero. Ma se ti sbilanci quando hai passato una vita volando senza radici, lo schianto può essere solo questione di tempo.

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